Islamofobia e razzismo. Esiste il nemico perfetto?


Islamofobia e razzismo” è uscito per edizioni Seb 27 il 25 giugno. La casa editrice indipendente che ha la sua sede a Torino propone, da circa un trentennio, un ricco catalogo di saggistica con cui sondare i fenomeni che compongono la realtà, proprio mentre quella accade. Se il titolo mette il dito nella piaga, è il sottotitolo ad aggiungere chiari i contorni e la portata della questione: Media, discorsi pubblici e immaginario nella decostruzione dell’altro. Il testo è un lavoro curato da Gabriele Proglio e invita a una riflessione per molti versi obbligata. Il recentissimo ritorno a casa di Silvia Romano è un esempio di quanto necessario sia oggi ragionare sull’argomento, fuori dai luoghi comuni e dai preconcetti. L’accoglienza riservata da moltissimi connazionali e da certa stampa alla cooperante rapita in Kenya quasi due anni fa a ben vedere è fatto che, più di ogni altro, ha lasciato cadere l’ultimo velo.

La prefazione di Federico Faloppa introduce l’argomento, rivelandoci da subito i contorni e infine il senso di ciò che leggeremo. Lo hate speech è stato appena ritrovato, riemerso dall’ombra in cui era piombato nei mesi della quarantena da Covid-19, si svela come mai archiviato del tutto. Sarebbe forse il caso allora – ci suggerisce il libro – di indagarne il senso e farsi un’idea precisa del perché.
Preparandosi a maneggiare razzismo, sessismo e intolleranza, Proglio in apertura cita Edward Said, autore di Covering Islam. Come i media e gli esperti determinano la nostra visione del resto del mondo. E scopre le carte: «Le generalizzazioni denigratorie sull’islam sono diventate l’ultima forma accettabile in Occidente di denigrazioni di una cultura straniera; quel che si dice della mente, della cultura, della religione o del carattere dei musulmani in generale, oggi non si può dire in un dibattito pubblico degli africani, degli ebrei, né di altri orientali o asiatici».
Abbiamo dunque, davvero, sdoganato l’odio fino al punto da aver trovato il nemico perfetto? Sembra questa la domanda che più di ogni altra si solleva dal testo. Gli eccessi di certa stampa ne sono un’odiosa conferma. Ad esempio, le parole di Facci, apparse su Libero il 28 luglio 2016: «Io odio l’islam, tutti gli islam, gli islamici e la loro religione più schifosa addirittura di tutte le altre, odio il loro odio che è proibito odiare, le loro moschee squallide, la cultura aniconica e la puzza di piedi, i tappeti pulciosi e l’oro tarocco, il muezzin, i loro veli (…) le loro povere donne, quel manualetto militare che è il Corano».

La questione – è chiaro – ci spinge a scavare, con la consapevolezza che non saranno proprio scoperte gradevoli; con ogni probabilità saranno piuttosto riesumazioni mortifere, quelle che verranno. Il filo del discorso si intravede tra le pagine e si fa progressivamente sempre più nitido, fino a spogliare l’argomento dalle croste del tempo, sfidando il lettore a riconsiderarlo su un piano differente. Il maggior pregio di questo volume sta forse nel porre una questione di metodo che di fondo è anche, certamente, una questione politica.
I capitoli offrono a chi vi si avvicini un’osservazione innanzitutto sfaccettata. Il libro è un collage che si compone dei contributi di otto tra autori e autrici di diversa provenienza, con un prezioso cameo in chiusura che è un’incursione nel graphic journalism. Con l’intento di andare oltre il pregiudizio, si finisce per isolare la sagoma di un Islam che si disvela come corpo deformato dagli stereotipi. Sufismo e fondamentalismo, l’islamofobia riletta attraverso il dato economico, ma anche incastonata dentro all’immancabile tensione securitaria, e poi l’effetto 11 settembre, col suo riverbero sull’oggi.
Richiama le considerazioni di Clémentine Autain (la deputata della sinistra francese di Jean-Luc Mélenchon) e così facendo, questa lettura, suggerisce uno scenario preciso: la possibilità che l’islamofobia possa avere ben poco a che fare con le rivendicazioni laiciste. Il passo successivo è un punto di approdo che si rivela stimolo per ragionamenti importanti: «la parola può essere la cosa e non una delle sue tante possibili chiavi di lettura».

A prescindere dal lessico e dalle sue implicazioni per soli addetti ai lavori, è evidente comunque come il carattere non occasionale né sporadico di certi attacchi razzisti resti sotto gli occhi di tutti. Come la punta di un iceberg, quelli tradiscono l’insieme di pregiudizi che hanno stratificato e giustificato l’ineguaglianza nel corso dei millenni: «I termini della proporzione discriminatoria sono palesi: se l’islam non appartiene all’Italia cattolica, o all’Europa cristiana, le persone musulmane sono, inevitabilmente, non italiane e non europee, essendo confinate, con uno sguardo ben più ampio della sola questione della cittadinanza, in quella zona del «non essere» teorizzata da Frantz Fanon».

La disamina del termine, Islamofobia, nel libro è attenzione al linguaggio, tanto alla sua forza quanto alla sua resistenza. In parallelo (ma con le dovute differenze) non si può negare che accada la stessa cosa ad esempio con Femminicidio, lemma che come il primo attira detrattori e che lascia aperta un’altra questione dalle evocazioni molto più ampie di quelle strettamente tecniche. L’editore torna peraltro su un terreno che non gli è nuovo e tratta un tema che ha affrontato da diverse angolature, non ultimo in Lessico della crisi e del possibile, raccolta a cura di Fabrice Olivier Dubosc.

Bisognerà riconoscere insomma come la lettura di questo testo si mostri, sin da subito, di grande, anzi grandissima attualità. Il libro rimane attinente al dibattito pubblico di pre e di post pandemia, svela una certa dinamica e ci suggerisce come sia un bene imparare a non ignorarla più. Senza la pretesa di trovare soluzioni o risposte preconfezionate, questo lavoro, piuttosto pare voler suggerire domande. Bisogna considerare che «l’operazione culturale sugli stereotipi veicolati nel presente e nel passato ha l’obiettivo di mostrare le forme narrative e le rappresentazioni come tentativo di imporre un’egemonia culturale nella società». E per far ciò gli autori mettono a fuoco quelle che definiscono «immagini-memoria che hanno persistito nel tempo: il velo della donna musulmana come simbolo di presunta inferiorità e soggezione al maschio; la lingua araba come luogo in cui si progetterebbero, sempre e comunque, attacchi all’Europa pensata unicamente come bianca e cristiana; l’uomo musulmano quale emblema incondizionato di una società arretrata e violenta».

Poi è fin troppo evidente che le implicazioni siano molteplici. Parlare di islam non si può senza ignorare il tema dei diritti civili e della violenza sulle donne. C’è una recente intervista firmata da Cinzia Sciuto (autrice per Feltrinelli di Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo), all’attivista iraniano Ashkan Rostami, che partendo dalla vicenda della morte di Romina Ashrafi, trucidata dal padre a soli tredici anni, pone sul tavolo la questione in maniera drammatica e richiama in ballo anche noi, con il delitto d’onore espunto dal codice penale solo nel 1981.

Ecco che se i contorni di ciò che tentiamo di mettere a fuoco sono tanto sfumati e numerosissime le sfaccettature, i contributi raccolti da Gabriele Proglio potranno dire di aver raggiunto l’obiettivo già unicamente sollevando domande. Potrà accadere di ricavarne una chiave di lettura nuova, in grado di spalancare porte finora sbarrate, tanto da mettere le scienze sociali in condizione di intervenire nel dibattito pubblico. Lo scopo in alcun modo taciuto degli autori è proporre “riflessioni che sciolgano i nodi razzisti“. Ed è proprio questo il punto in cui potranno innestarsi ragionamenti e contributi che potrebbero finire per rivelarsi davvero preziosi.

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